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BIOGRAFIA DI UN POETA

A chi sia tutto preso dall’immagine del Furioso, il capolavoro dell’Ariosto, come di un’opera «miracolosa», totalmente librata in un cielo supremo di fantasia, tutta perfettamente chiusa in se stessa come un sogno sublime e gratuito, potrebbe sembrare inutile o addirittura fuorviante qualsiasi forma di storicizzazione e di riferimento alla biografia del poeta. Biografia che poi, misurata da quell’altezza, potrebbe apparire deludente e meschina: vita di un uomo e magari di un pover’uomo, riscattata solo dal suo sogno poetico sovrumano e «divino».

Invece, chi voglia comprendere criticamente e non solo «degustare» la poesia dell’Ariosto, chi voglia risalire alla sua possente e luminosa realtà poetica dall’interno della sua stessa formazione personale e storica (e cosí tanto meglio valutarla e riviverla avendone compreso la natura, le ragioni, il significato non in un astratto iperuranio fuori della storia, ma entro la storia del creatore e del suo tempo), deve anzitutto piegarsi a riconoscere la concreta realtà dell’uomo-poeta, la sua posizione storica, la forma della sua esperienza vitale, il mondo dei suoi sentimenti e dei suoi affetti.

Cosí facendo i secchi dati biografici si animeranno e parleranno, testimoniando di un atteggiamento vitale schietto e genuino, di un mondo di esperienza concreto e misurato che sono la stessa base necessaria della grande operazione poetica ariostesca: fantasia calda di realtà, ritmo poetico alimentato da un sentimento autentico della vita umana e storica, senza di cui la stessa fantasia e lo stesso ritmo poetico non avrebbero quella densità, quel senso di concretezza e di esperienza che caratterizza la poesia ariostesca sin nelle sue creazioni piú libere e fantastiche, ma mai astratte, intellettualistiche, libresche.

Ché, come poi vedremo, l’acquisto piú saldo della critica del Furioso sarà proprio l’intuizione di un mondo poetico come unione e fusione del reale e del fantastico, del naturale e del meraviglioso. Né si tratterà di una creazione «miracolosa» e di un sogno magico, estraneo al poeta nella sua umanità e nella sua storia umana ed artistica, ma di una creazione in cui le qualità del creatore, in tutta la sua umanità e storicità, si sono esaltate e trasfigurate in perfetta fusione poetica, rimanendo essenziali alla nostra ricostruzione e interpretazione della genesi e della realtà del grande poema. E questo nasce e si realizza attraverso un lungo e concreto lavoro artistico che coinvolge le cosiddette opere minori, che vanno cosí studiate e comprese e per il loro valore specifico e per il loro rapporto con il capolavoro, per il loro significato entro l’intera esperienza vitale e poetica dell’Ariosto.

Come va studiata e compresa la stessa «vita» ariostesca nelle sue condizioni storiche e personali inseparabili per veramente comprendere la genesi della poesia ariostesca nelle opere minori e nel capolavoro.

Cosa ci dice, al di là della semplice e pur doverosa informazione, la biografia ariostesca?

Rivediamone anzitutto i dati fondamentali, caratteristici di una vita piú ricca di concentrazione e di esperienze essenziali che di vicende esterne e di drammatici sviluppi, e pure non priva di atti e momenti essenziali a verificarne la nobiltà, la dignità, la stessa capacità di impegno e di azione là dove questi vennero dettati da una coscienza tutt’altro che inerte, anche se profondamente nemica di ogni indaffaramento attivistico, di ogni smania di affermazione e di esibizione, di ogni assunzione di responsabilità non richiesta dal senso piú profondo delle circostanze e dalla difesa di valori concreti.

Ludovico Ariosto nacque, l’8 settembre 1474, a Reggio Emilia da Daria Malaguzzi reggiana e dal ferrarese Nicolò Ariosto[1], capitano della cittadella di quella città, e cosí duro e prepotente e poco scrupoloso nel legare la propria carica ai propri interessi finanziari, che venne trasferito dai duchi di Ferrara nel 1481 a Rovigo, per poi rientrare, nel 1482, nella sua città natale, dove la famiglia si stabilí definitivamente malgrado l’alternarsi di incarichi in città e fuori (a Modena) e nella varia vicenda di prestigio e di infortuni dovuti al comportamento assai discutibile e discusso di Nicolò, che moriva nel 1500 lasciando la moglie e i dieci figli in una situazione economica intricata per controversie legali assai complicate con estranei e parenti.

Con la morte del padre, la vita di Ludovico subí un netto passaggio a responsabilità assai gravose, data la sua qualità di figlio maggiore, tenuto ad amministrare i beni della famiglia.

Mentre l’adolescenza e la prima giovinezza erano state segnate da una vita sostanzialmente lieta e tranquilla, fervidamente operosa, quale poteva essere quella di un eccezionale giovane nobile, agiato, dotato di eccezionali qualità personali, nella ricca vita socievole e culturale di Ferrara e della corte estense, in un periodo di singolare splendore dovuto soprattutto alla politica interna e mecenatesca di Ercole I che aveva fatto di Ferrara la città esemplare del primo Rinascimento italiano ed europeo, sia da un punto di vista urbanistico (è l’epoca della trasformazione della città ad opera soprattutto dell’architetto Biagio Rossetti), sia dal punto di vista culturale, artistico, letterario. E proprio nella dimensione culturale-letteraria il giovane Ariosto poté usufruire, nella sua ampia formazione, delle feconde offerte della cultura ferrarese: dall’attività teatrale in cui Ferrara dette praticamente l’avvio alla nuova commedia cinquecentesca italiana, all’attività lirica e romanzesca in volgare (fra il petrarchismo cortigiano del Tebaldeo, l’epica cavalleresca e la lirica del Boiardo, la direzione satirica del Pistoia), alla fiorentissima attività umanistico-latina avviata dalla grande scuola del Guarino.

Dopo i primissimi studi di lingua e letteratura latina condotti in casa sotto la guida di Domenico Catabene e di Luca Ripa, l’Ariosto, che era stato avviato dal padre agli studi giuridici (portati avanti assai fiaccamente per cinque anni, dal 1489 al 1494), poté interromperli imponendo al padre la sua prepotente vocazione letteraria (è come la prima prova di energia e di decisione nelle sue scelte fondamentali da parte di un uomo tutt’altro che passivo e scettico) e poté piú interamente dedicarsi a quell’attività culturale, letteraria e poetica che già aveva esercitato precocemente sia come attore, «regista», autore teatrale (sembra certo che nel 1493 egli abbia composto una Tragedia di Tisbe, andata perduta), sia come scrittore in volgare di componimenti goliardici e satirici, encomiastici (è pure del 1493 un capitolo per la morte di Eleonora d’Aragona), sia soprattutto come studioso e apprendista della letteratura umanistica in latino. A questa dal 1494 prevalentemente si dedicò, seguendo i corsi dell’umanista Gregorio da Spoleto, tanto da lui esaltato come nuovo suo padre intellettuale e letterario, e non trascurando lo studio della filosofia neoplatonica seguendo i corsi del ficiniano Sebastiano dell’Aquila e frequentando, fra gli altri amici letterati, lo stesso Pietro Bembo presente in Ferrara negli ultimissimi anni del Quattrocento e allora fervidamente preso dall’ideale umanistico latino e neoplatonico.

Con la morte del padre, come dicevamo, questo periodo di vita piú agevole e spensierata (fra studi intensi e congeniali e partecipazione alla vita elegante e galante della corte), se non veniva certamente interrotto, si complicava però a causa delle cure e delle preoccupazioni familiari ed amministrative (documentate dai «canti dei contadini», dalle «vacchette» dell’attento amministratore dei beni familiari) e l’Ariosto, che pur già dal 1498 era incluso fra i cortigiani stipendiati (in una posizione che avrebbe potuto permettergli un rapporto assai duttile con la corte simile a quello di altri letterati protetti dagli estensi), dové piú direttamente impegnarsi nel servizio dei duchi di Ferrara, prima come capitano della rocca di Canossa (fra il 1501 e il 1503), poi come «familiare» del cardinale Ippolito, fratello minore del duca regnante, Alfonso.

Il servizio alla corte di Ferrara quale cortigiano del cardinale Ippolito (dal 1503 al 1517) impegnò l’Ariosto ben al di là dei suoi desideri e dei suoi programmi di letterato protetto dal mecenatismo principesco e collaborante con la stessa attività politica dei principi in una posizione di dignità e di prestigio che sarebbe dovuta derivargli appunto dal riconoscimento delle sue precipue doti letterarie.

Invece il cardinale, pur non incolto e pur non incapace di apprezzare le qualità poetiche dell’Ariosto (donde la inverosimiglianza della battuta attribuitagli leggendariamente di fronte all’offerta della prima edizione del Furioso: «Messer Ludovico, dove avete trovato tante corbellerie?»), pretendeva da lui le prestazioni piú svariate, fin quasi ad obblighi addirittura servili[2].

Da ciò la scontentezza crescente dell’Ariosto, che pur non rifiutò la sua condizione e cercò di associarla al suo lavoro poetico sempre piú intenso, maturo, organico ed impegnativo (si pensi che in quegli anni scrisse la prima redazione del poema e le due prime commedie, oltre a molte liriche), con una forma di pertinace volontà e pur sempre cercando, sia all’interno delle possibilità della corte, sia fuori di essa, di migliorare la propria condizione pratica, pur sempre sperando di acquistarsi, con il suo lavoro poetico e con la stessa fedeltà e capacità di cortigiano, maggiore prestigio ed agio di vita.

Tipica può essere, da tale punto di vista, la maniera con cui l’Ariosto reagí di fronte alla fallita congiura dei fratelli minori del duca Alfonso e del cardinale Ippolito (Giulio e Ferrante), accettando la versione ufficiale dei suoi principi, giustificando l’azione dura e decisa con ragioni di pubblica utilità, associando la sua fedeltà e i suoi doveri di cortigiano con il fondo della sua persuasione in un ordine civile principesco, opposto al disordine, all’anarchia, ai turbamenti interni, e rappresentando cosí la congiura in un’ecloga (la I) che doveva mettere in luce insieme la sua abilità di letterato e la sua capace collaborazione di cortigiano.

Capacità di cortigiano e di diplomatico che gli Este misero alla prova prima con minuti incarichi, poi con delicate e spesso pericolose missioni a Roma presso il terribile Giulio piú volte fra il 1509 e il 1510 per scolpare il cardinale di una sua appropriazione indebita di beni ecclesiastici, per giustificare le azioni filofrancesi dei suoi principi, per chiedere aiuti contro la minaccia veneziana, incontrando peripezie di viaggi e persino il pericolo dell’ira del papa che lo avrebbe minacciato di farlo gettare nel Tevere; poi nel 1512 partecipando alla fuga avventurosa di Alfonso inseguito dagli sgherri del papa.

A Roma ritornerà anche negli anni successivi, sia per obblighi cortigiani sia per ragioni personali, allo scopo di assicurarsi alcuni piccoli benefici ecclesiastici (che lo avevano obbligato a prendere gli ordini minori), e soprattutto nel 1513, nel tentativo fallito di ottenere dal nuovo papa, Leone X –, con cui era in buoni rapporti, quando questi era ancora il cardinale Giovanni de’ Medici – qualche ufficio remunerativo e tranquillo, piú adatto al suo lavoro poetico.

Ed è proprio per la salvaguardia del suo lavoro poetico e delle ragioni essenziali della sua vita (sempre piú legata ad una condizione sedentaria anche a causa del rapporto praticamente coniugale – anche se non mai reso ufficiale e solo tardi sancito da un matrimonio segreto, per ragioni economiche: i suoi piccoli benefici ecclesiastici – con quella Alessandra Benucci-Strozzi, fiorentina, conosciuta a Firenze nel 1513, e poi, dopo la morte del marito, divenuta sua compagna fedele e fedelmente amata fino alla morte) che l’Ariosto resisterà tenacemente (prima chiedendo una esenzione dal viaggio e il permesso di seguitare a servire il cardinale a Ferrara, poi rifiutando di accettare il diniego di Ippolito) al proposito del suo padrone di condurlo con sé in Ungheria, dove era divenuto vescovo di Agria.

In questa vicenda (da cui prenderanno avvio le Satire e la presa di coscienza della sua misera condizione cortigiana) l’Ariosto rivelò assai bene il fondo del suo carattere energico e dignitoso, il limite della sua capacità di compromesso, quando entravano in giuoco le ragioni stesse della sua vita, dei suoi affetti essenziali, del suo lavoro poetico.

L’Ariosto passò cosí al diretto servizio del duca Alfonso.

Non per questo egli poté realizzare ancora interamente il suo desiderio di una vita indipendente ed agiata: ché, se il nuovo servizio presso il duca regnante era certo meno gravoso e piú dignitoso, esso non bastava a risolvere una situazione economica non facile e complicata da liti giudiziarie per eredità familiari e da difficili controversie per il godimento effettivo di piccoli benefici ecclesiastici, che misero a prova le qualità pur notevoli del saggio amministratore e soprattutto attediarono la sua vita di lavoro artistico e di equilibrata fruizione di affetti domestici e di rapporti socievoli.

Quando quelle difficoltà crebbero, l’Ariosto dové risolversi ad accettare, nel ’22, l’incarico di governatore della Garfagnana: incarico tutt’altro che facile (data la lontananza di quel possesso estense da Ferrara e il suo stato di miseria e di turbolenza) e tale perciò da confermare in noi la certezza della fiducia che gli Este riponevano, a ragion veduta e per precedente esperienza, nelle qualità pratiche del poeta.

Qualità positivamente provate dall’attività ariostesca durata tre anni e contrassegnata infatti – malgrado i lamenti del poeta per la lontananza da Ferrara e dalla donna amata, per l’interruzione del suo lavoro poetico – da una energia, da una fattiva prudenza, dall’intelligenza di provvedimenti rapidi e tempestivi, oculati, con cui l’Ariosto governatore seppe far rispettare, con personali interventi (fino agli scontri armati) e con scarsissimo appoggio del governo ducale, la legge in un paese infestato dai briganti, diviso fra fazioni ostili, circondato da stati gelosi di confini e prerogative, oppresso da una miseria che suscitava l’umanissima pietà dell’Ariosto.

Che poi questi sentisse con sollievo la fine di quella sua prova pratica, quando poté lasciare l’incarico e ritornare a Ferrara, non toglie nulla al significato che da quel periodo si deve ricavare agli effetti di una nostra conoscenza migliore di un uomo troppo spesso immaginato solo come un sognatore inetto alla vita pratica, come un pigro edonista senza energia e del tutto spaesato fuori della sua poesia.

Ritornato a Ferrara, solo allora e negli anni ultimi della sua esistenza, l’Ariosto riusciva a comporre la sua vita nel ritmo piú congeniale ai suoi desideri e alla sua precoce vecchiaia.

Col frutto della sua attività di governatore e con la parte del patrimonio paterno finalmente diviso con i fratelli e sottratto alle vecchie liti giudiziarie, nel 1525, poteva acquistare nella tranquilla contrada di Mirasole una casa modesta e comoda, che tuttora si può visitare, fortunatamente scampata alle bombe dell’ultima guerra proprio in una zona da quelle quasi interamente devastata, e che tanto suggerisce, al visitatore non sprovveduto, sull’ambiente propizio, fra eleganza armonica e assenza di ogni fasto superfluo, che l’Ariosto seppe creare alla sua vita senile, alla sua ultima operosità poetica inesausta, abitandovi costantemente a partire dal 1529. Vita confortata da tranquilli affetti, da amicizie durature, da un prestigio consolidato nella città e in tutta Italia, da incarichi onorevoli e poco fastidiosi (qualche ambasceria e qualche breve viaggio in compagnia del duca in vicine città, incarico di apprestamenti di spettacoli in occasione di feste e cerimonie) che confermavano i suoi ininterrotti rapporti con la corte e con la città in cui egli amò vivere e in cui, il 6 luglio 1533, terminato da poco l’apprestamento della terza edizione del Furioso, egli si spegneva: al termine di una vita non lunga, prima dei sessanta anni, non sontuosamente carica di vicende e di occasioni vistose, ma cosí interamente e profondamente vissuta, cosí contrassegnata da alcuni momenti significativi e dall’esercizio tutt’altro che contrastante della propria poesia e di essenziali umane qualità che quella avvalorarono e senza di cui quella resterebbe per noi tanto piú misteriosa, inesplicabile, e comunque tanto piú facilmente privata del suo profondo calore di esperienza vitale e storica.


1 La famiglia degli Ariosto (il loro nome derivava da Riosto, castello del contado bolognese) era passata nel secolo XIV da Bologna a Ferrara dove (in qualche modo imparentati con gli Este attraverso il matrimonio di Obizzo III di Este con Lippa Ariosto) i suoi vari rami si legarono tutti (con vario prestigio e potenza economica) alla corte estense.

2 Secondo l’elenco del piú moderno e sicuro biografo dell’Ariosto, il Catalano, ecco in che consisteva l’ufficio del «cortigiano» di Ippolito: «Sembra che egli non assolvesse un servizio speciale, come sarebbe cancelliere, scalco, spenditore, amministratore, cavalcatore, e fosse puramente un familiare o cortigiano, senza ufficio determinato, ma con l’obbligo di disimpegnare, volta a volta, le svariate incombenze di cui veniva incaricato: eseguire rapidamente le ambasciate e le missioni, futili o rischiose che fossero; portare lettere a principi, a sovrani, a cardinali; investigare presso nemici e amici per l’utile del signore; coadiuvarlo nelle sue mene e intraprese politiche; scortarlo sul campo di battaglia, qualora gli fosse piaciuto partecipare personalmente alla pugna; accompagnarlo nei viaggi, ovunque lo portasse il suo genio irrequieto; facilitargli il soddisfacimento dei piaceri; sorvegliare che succulento pranzo fosse preparato a puntino; mettere a fresco il vino d’estate e portargli a letto i beveraggi caldi d’inverno; acquistargli, a Firenze, a Milano, a Genova, a Venezia, le ricche stoffe, i vestiti eleganti, i cappelli adorni, i pennacchi multicolori, le maschere, i giuochi, i libri; tenergli compagnia nei suoi favoriti passatempi; sopportare con filosofia le variabilità del suo umore; attendere la notte che rincasasse per accompagnarlo in camera e per aiutarlo a spogliarsi». (Cfr. M. Catalano, Vita di Ludovico Ariosto, Genève, Olschki, 1930, vol. I, pp. 204-205).